Il Ben Ryé di Donnafugata: un grande passito e il problema delle dimensioni

Il Passito Ben Rye di Donna Fugata

Siamo nel bel mezzo delle feste, girano panettoni e pandori, creme, dolci di ogni tipo e sinceramente trovo sia un periodo stupendo per andare a provare quelle tipologie di vino che normalmente non è facile stappare. Diciamo che sono più di cinque anni che avevo una bottiglia in cantina e continuavo a cercare il momento giusto per “tirarle il collo”. Finalmente, durante la Vigilia di Natale, una tavolata di otto persone me ne ha dato l’occasione. Ed ecco com’è stato questo Natale con il Ben Ryé 2008 di Donnafugata….

Il Ben Ryé Passito di Donnafugata è una di quelle bottiglie già assaggiate in passato, e per le quali nutri un’aspettativa talmente alta che l’idea di berla “sotto tono”, vuoi perché troppo presto, o peggio perché troppo tardi, ti tormenta un weekend si e l’altro pure.

Mezza nota di demerito per chi, sfortunato, non abbia mai sentito parlare di questa grande cantina siciliana: 340 ettari coltivati tra il comune di Contessa Entellina, Mazzara, Marsala, Sambuca e Santa Margherita, sull’isola principale e sull’isola di Pantelleria.
Coltiva sia vitigni autoctoni che varietà internazionali. Abbondantemente sopra i 2 milioni di bottiglie prodotte. Esportazioni in tutto il mondo. E’ uno dei capisaldi dell’enologia siciliana. E’ il gioiello della famiglia Rallo.

Il Ben Ryé è un Passito DOP , vendemmiato a partire dalla seconda metà di Agosto e comunque solo a piena maturazione dei grappoli, secondo l’esposizione delle diverse contrade sull’isola. Durante la fermentazione in acciaio vengono progressivamente aggiunti gli acini appassiti dello Zibibbo, raccolti a mano. Riposa tre anni in bottiglia prima di essere immesso sul mercato.

Sul sito del produttore, ci sono 8 pagine di riconoscimenti vinti da questo vino, partendo dal 92 al 2012, tra cui qualche 95/100, tantissimi bicchieri e grappoli, medaglie, menzioni, etc. Insomma non è un vino qualsiasi, e costa quanto vale.Isola di PantelleriaViste le premesse, una bottiglia di quasi 8 anni, un po’ di apprensione me la trasmetteva, perché purtroppo capita che un vino da dessert lo si trascuri in cantina e bevendolo anche solo uno o due anni dopo l’acquisto, lo si ritrovi stanco, eccessivamente zuccherino e “marmellatoso”.
C’è poco da fare, sono tipologie di vino estremamente delicate, qui più che con altri prodotti, la materia prima messa in bottiglia ha doti di conservazione date dalla qualità intrinseca, con le quali devi fare i conti. Prodotti scadenti non maturano, invecchiano e basta. Si imbolsiscono, ossidano, e da un buon passito ti tocca berti un pessimo “marsalato”.

Fortunatamente non è questo il caso. Di fronte ad una bella fetta di panettone tradizionale, con i suoi bei canditi, sporcato appena da un po’ di crema al mascarpone, ho versato ai commensali un bicchiere di questo Ben Ryé con otto anni sulle spalle.

Il colore non mi ha allarmato, appena più caramellato della versione oggi in commercio, con unghia più beige che aranciata, ancora perfettamente vivo e lucente, che si lascia guardare attraverso, ma colora tutto il mondo di toni bruciati. Mi è venuto da definirlo “importante”.

Non avendo fretta, tra una chiacchiera e l’altra, mi sono anche concesso il lusso di lasciarlo appena scaldare nel bicchiere, annusandolo di quando in quando. Come capita spesso con i migliori vini ne si apprezza l’evoluzione con l’aumentare della temperatura. A 14° risultava penalizzato. Tanto caramello, un po’ di candito e qualche terziario dalle parti della cannella. Verso i 16° hanno fatto il loro ingresso il miele, la scorza d’arancio candita, tratti di cioccolato al latte e note leggermente burrose. A 18/20° il tripudio di frutta candita. Tutta la frutta tropicale che potete immaginarvi con la strana sensazione che a contenerla fosse un cesto di cuoio e non di vimini. Niente alcool al naso, mai, nemmeno a temperatura ambiente.

Sarà l’allevamento ad alberello, sarà che lo Zibibbo è un capolavoro della natura, sarà il terreno meraviglioso di Pantelleria, sarà la vendemmia notturna fatta spesso con una brezza marina che raramente smette di soffiare sull’isola, sarà quel che sarà, ma in bocca il Ben Ryé ha confermato il grandissimo sorso che a mio avviso pochissime altre produzioni isolane possono vantare. Strutturato, corposo, composto da una stratificazione di gusti che vanno dai più immediati e dolci, come il burro e la frutta candita, a quelli più sottili e complessi di balsamico e citrico, alcuni realmente appena accennati. Decisamente complesso, ma non inutilmente complicato, anzi facilissimo, perfettamente leggibile, in base all’attenzione che gli si dedica.

Sappiamo bene che esistono tante combinazioni possibili tra gusto e qualità di un vino, il suo prezzo e la sua “fama”. Si spazia da quelle bottiglie totalmente trascurabili, estremamente economiche, a quei vini dall’ottimo rapporto qualità prezzo, ma in grado di emozionare fino in fondo, alle grandi stelle internazionali estremamente care e non sempre all’altezza.
Poi, nella mia personale classifica, esistono i “fuori scala”, i capolavori.

Chiamo “Capolavoriquei vini capaci di stupirti ad ogni giro. Che hanno le carte per lasciare a bocca aperta anche un palato un po’ più educato della media. Quelli che scopri sorso dopo sorso, perché si raccontano mano a mano che prendono forma nel bicchiere. Quei vini che sapientemente qualcuno ha già descritto come “vini con un’anima”.
Ammetto che solitamente questa descrizione coincide più con grandi rossi frutto di vinificazioni particolari o comunque molto lunghe, vini complessi, molto più raramente con vini bianchi, anche se gli ultimi anni ci hanno fatto conoscere meraviglie ed esperimenti anche in questa categoria. Ma pochissimi vini “speciali” rientrano a pieno titolo in questa definizione. Chi più chi meno sono prodotti da “tutto e subito”. Esplosioni in bocca, magari gustosissimi, ma molto spesso troppo diretti ed in fondo “prevedibili”.
So che il passito non è propriamente un vino “speciale”, ma avete capito il punto.
Il Passito Ben Ryé di Donnafugata è un capolavoro.

Ora, per arrivare in fondo e lasciarvi con il vero perché di questo post, volevo spezzare una lancia (come se ne avessero bisogno) in favore dei prodotti eccezionali. Eccezionali punto.
Che siano figli di micro-produttori ispirati, o di grandissime realtà produttive come in questo caso. Che abbiano 2 milioni di bottiglie sorelle o solo 150. Questa bottiglia ha decisamente risvegliato la voglia di rivendicare il mio diritto di consumatore al bere libidinoso, al consumo di vino eccezionalmente buono, a prescindere. Sinceramente sincero, straordinariamente straordinario. Non voglio sentire di commenti tipo “eh ma quelli con tutti quei soldi sai che schifezze in cantina”, no! Basta.
E basta anche con il pensare che la qualità e la conseguente bontà siano unicamente appannaggio dei piccoli e piccolissimi produttori. Purtroppo capita anche in questa categoria di trovare produzioni trascurabili o non all’altezza. Non tutti certo, molti sono vere e proprie eccellenze che meriterebbero più notorietà di quella di cui godono, ci mancherebbe.

La questione è la seguente: non mi importa il nome del produttore o la dimensione dell’azienda, non più di tanto, mi importa la qualità di quello che mi mette in bottiglia. Con una provocazione potrei dire che se il Sig. Tavernello facesse un vino solo un filo più gustoso di quello che fa oggi, potrei anche comprarne tutti i giorni, così come se Travaglino non mi garantisse il livello di libidine che trovo in ogni sua bottiglia, smetterei volentieri di berle.
Personale, anzi personalissima scala di elementi di valutazione per un vino?

  1. “Goduriosità”,
  2. razionalità costo/beneficio (sempre in termine di godimento),
  3. reperibilità di una seconda e terza bottiglia alla bisogna (o alla voglia),
  4. filosofia di produzione e dimensioni della cantina.

Ecco, tutto qui…ma a questo punto sarei curioso di sapere, voi come la pensate?

Matteo Luca Brilli, o così piaceva ai miei genitori, che mi hanno graziato della nascita in terra Romagnola, con la R maiuscola, regalandomi così una passione viscerale per il buon bere ed il buon mangiare. Studi di comunicazione a parte ho capito subito che impastare uova e farina accompagnandole con un bicchiere adeguato sarebbe stato il un bel modo di passare le domeniche, e quindi via con i corsi di cucina e poi l'incontro con ONAV, diventando finalmente assaggiatore. Qualche cantiniere mi ha regalato la sua amicizia, qualche Chef ha condiviso i suoi segreti, più di qualche parola è stata messa nero su bianco e tante tante ne verranno ancora.

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Matteo Luca Brilli, o così piaceva ai miei genitori, che mi hanno graziato della nascita in terra Romagnola, con la R maiuscola, regalandomi così una passione viscerale per il buon bere ed il buon mangiare. Studi di comunicazione a parte ho capito subito che impastare uova e farina accompagnandole con un bicchiere adeguato sarebbe stato il un bel modo di passare le domeniche, e quindi via con i corsi di cucina e poi l'incontro con ONAV, diventando finalmente assaggiatore. Qualche cantiniere mi ha regalato la sua amicizia, qualche Chef ha condiviso i suoi segreti, più di qualche parola è stata messa nero su bianco e tante tante ne verranno ancora.


Commenti

3 risposte a “Il Ben Ryé di Donnafugata: un grande passito e il problema delle dimensioni”

  1. […] indubbiamente, la quantità di zucchero residuo è più alta di quella di un passito nostrano (il Ben Ryé di Donnafugata per esempio si attesta attorno ai 200 […]

  2. Aindreas Ridire ha detto:

    Grande vino, sono d’accordo…non amo alla follia i “vini da dessert”, non amo i produttori su larga scala, ma mi trova d’accordo con te nell’affermare che a volte quello che sento in bocca (e nel naso) vale molto di più dei miei pregiudizi (anche se la provocazione sul Tavernello è un po’ troppo sopra le righe per me).
    Anche sul mio blog ho parlato più volte di Donnafugata comunque…ho anche ripreso un servizio sul TG5 dedicato alla loro vendemmia notturna:
    https://vinidisicilia.wordpress.com/2015/12/12/vendemmia-notturna-2015/

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